Caso Moro

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Roma, 16 marzo 1978: la fuga dei terroristi con l’ostaggio, subito dopo la strage di via Fani. Le tracce del commando si perdono in via Casale De Bustis[1].
La versione della fuga da via Fani raccontata dal brigatista Morucci, smentita da una testimone, è smentita anche dalla logica: non si comprende perché, se la destinazione era piazza Madonna del Cenacolo, i terroristi avrebbero dovuto percorrere via Casale De Bustis (fermandosi a tranciare la catenella), invece di percorrere via Durante e via della Balduina[2].

Il Caso Moro è stato un episodio storico tra i più drammatici e controversi della Repubblica Italiana, che riguarda il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro, uno dei principali esponenti del partito politico Democrazia Cristiana (DC) e presidente del partito, da parte delle Brigate Rosse (BR), un gruppo terroristico autoproclamatosi "Marxista-Leninista" (ma in realtà anarco-trotskista e neofascista nella prassi e nella teoria), nel 1978.

L'agguato di Via Fani

Il 16 Marzo 1978 Moro è rapito dalle Brigate Rosse. La vicenda vera e propria dell'agguato si è svolta in questo modo:

«La mattina di giovedì 16 marzo 1978, pochi minuti prima delle ore 9, in via del Forte Trionfale 79, l'on. Moro esce di casa e sale sull’auto Fiat 130 blu che deve portarlo alla Camera, per il voto di fiducia al nuovo governo Andreotti col PCI nella maggioranza. L’auto con a bordo Moro (seduto alle spalle dell’autista, l’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci, affiancato dal caposcorta, il maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi) si mette in marcia, seguita dall’Alfetta della scorta con a bordo tre poliziotti (Giulio Rivera al volante, Raffaele Iozzino e Francesco Zizzi). Le due macchine svoltano da via del Forte Trionfale in via Fani, e in prossimità dell’incrocio con via Stresa rallentano fino a fermarsi: una Fiat 128 bianca con targa diplomatica, che le precede, si è fermata sul segnale di “stop”. Al volante della 128 bianca c’è il capo brigatista Mario Moretti, e scatta qui l’agguato terrorista, una mattanza che dura non più di un paio di minuti. Mentre una parte del commando blocca il traffico in ogni direzione, un killer in divisa da aviere, appostato sul marciapiede di destra, spara a distanza ravvicinata contro il caposcorta maresciallo Leonardi (che occupa il sedile anteriore destro della macchina di Moro). Contemporaneamente quattro terroristi in divisa da avieri, sbucati dalla parte opposta della strada, sulla sinistra, si sono avvicinati alle due auto impugnando pistole mitragliatrici: uno frantuma col calcio dell'arma il vetro della portiera anteriore della Fiat 130 e spara contro l’autista di Moro, l ’appuntato Ricci; intanto gli altri tre terroristi fanno fuoco contro l ’Alfetta della scorta, ma le loro mitragliette si inceppano una dopo l ’altra ‘.Il killer che ha sparato la prima raffica contro l'auto di Moro - secondo i testimoni, un tiratore scelto - fa un balzo all’indietro e spara una seconda raffica crivellando l’agente Iozzino, che è riuscito a scendere dall’Affetta e a esplodere due colpi di pistola; fanno fuoco sulla macchina della scorta anche due individui sbucati a una decina di metri dai quattro terroristi in divisa da avieri. Conclusa la violentissima sparatoria (verranno contati 91 proiettili esplosi dai terroristi), Moretti scende dalla 128 bianca, e aiutato da un secondo brigatista preleva Moro dalla 130 e lo carica a forza su una 132 blu nel frattempo affiancatasi in retromarcia al luogo della strage; sottratte due borse dall’auto di Moro e un mitra dall’Affetta della scorta, il commando terrorista fugge con l’ostaggio, a bordo di tre auto (la 132 blu, la 128 bianca, una 128 blu, tutte rubate) e di una moto Honda. Un’azione militare di grande perizia: i terroristi hanno sterminato la scorta (quattro morti, e l’agente Iozzino agonizzante) lasciando Moro illeso, e sono riusciti a fuggire indisturbati con l’ostaggio. Non verrà mai appurato con esattezza quanti terroristi abbiano preso parte alla strage (secondo le risultanze processuali, una decina; più probabilmente, almeno 13). Né verrà mai identificato il tiratore scelto che ha esploso con la sua arma ben 49 dei 91 colpi, sopperendo alla goffa imperizia militare dei tre brigatisti-avieri (le cui mitragliette si sono tutte inceppate - una non ha sparato neppure un colpo). Né verrà mai accertato per quale ragione in prossimità di via Fani, al momento della strage, si aggirasse un ufficiale del Sismi, il colonnello Camillo Guglielmi[3]. Di certo c’è che Moretti è il solo terrorista che conosce l’identità di tutti coloro i quali hanno preso parte all’agguato, e benché non abbia partecipato alla sparatoria è di fatto il capo del sequestro e il padrone dell’ostaggio[4]

Questa ricostruzione ufficiale della sparatoria vera e propria e dell'atto in sé del rapimento, basata sulle semplici testimonianze oculari dei presenti nel luogo quel giorno, inclusa la presenza di un "tiratore scelto" in grado con la sua esperienza con le armi da fuoco di sopperire all'incompetenza degli altri suoi "colleghi", non trova invece conferma nell'altra ricostruzione "ufficiale", quella rilasciata dall'ex brigatista Morucci (mai pentitosi, semplicemente "dissociatosi") e poi via via rimodellata a seconda delle esigenze della magistratura, o di chi per loro, per poter acquietare tutti gli attori coinvolti nella vicenda. Secondo la "ricostruzione" di Morucci, il commando di terroristi e rapitori di cui faceva parte avrebbe lasciato incustodito un enorme furgone, poi preso in custodia dal Morucci stesso, e condotto in Piazza Madonna del Cenacolo, una piazza circondata da diversi palazzi pubblici, tra cui un bar, e caratterizzata da un intenso traffico, quindi un luogo improbabile in cui avere un rendez-vous e in cui trasbordare l'on. Moro in una cassa di legno all'interno del suddetto furgone. Proprio come è improbabile che dei terroristi abbandonino le proprie automobili e cambino veicoli nella zona di Via Massimi-Via Bitossi, molto frequentata dalla polizia[5]. A smentire la "ricostruzione" ufficiale entra in soccorso di Flamigni la testimonianza di una donna che abitava in zona all'epoca dei fatti:

«Infatti la testimone Elsa Maria Stocco ha visto alla guida dell’autofurgone un’altra "persona di aspetto giovane". La Stocco abita in via Bitossi 26, nel palazzo accanto a quello dove c ’è l’abitazione del giudice Walter Celentano, solitamente piantonata da un’autopattuglia; mentre rientrava a casa, verso le 9.20, la Stocco ha visto arrivare da via Massimi, a forte velocità, un’auto di grossa cilindrata che si è fermata proprio davanti alla sua abitazione: ne è sceso un uomo in divisa da pilota civile, senza berretto, con un impermeabile blu e in mano una valigetta 24 ore, il quale si è avvicinato al furgone, ha aperto lo sportello e ha buttato dentro la valigetta; quindi il falso aviere è ritornato all’auto, ne ha prelevato "un borsone scuro" e ha buttato anche quello dentro il furgone; dopodiché le due autovetture si sono allontanate in direzione di via Bernardini. Contrariamente alla versione di Morucci (secondo la quale il furgone sarebbe stato incustodito), la Stocco afferma che alla guida del furgone c ’era una persona. Chi fosse quel brigatista, e a chi appartenesse quell’autofurgone, non verrà mai accertato, anche perché il mezzo non verrà mai ritrovato. Inoltre la Stocco ha visto arrivare l’uomo in divisa da aviere non a piedi, ma a bordo di una macchina di grossa cilindrata ("di tipo ministeriale"), e quelle trasbordate sull’autofurgone non erano le due borse diplomatiche sottratte dall’auto di Moro. Ma l’elemento più importante della testimonianza della Stocco è l’orario in cui ha assistito aH’improvviso arrivo del finto aviere, al rapido trasferimento di valigetta e borsone dall’automobile all’autofurgone, e alla sollecita partenza dei due automezzi: "Sono certa che i fatti di cui sono stata testimone si sono verificati tra le 9.20 e le 9.25 in quanto pochi minuti dopo io entravo nella mia abitazione e ascoltavo il giornale radio delle ore 9.30, che già dava notizia dell’assassinio della scorta dell’on. Moro". Nello stesso lasso di tempo, la Fiat 132 con a bordo Moro utilizzata per la fuga da via Fani viene trovata parcheggiata in via Licinio Calvo: quindi Moro è stato trasbordato prima dell’arrivo di Valerio Morucci (o di chi per lui) in via Bitossi[6]

Questa versione dei fatti, che viene smentita anche dalla logica di una semplice analisi del presunto "percorso" tracciato su una mappa dell'area di Roma in cui si verificarono i fatti dell'epoca, risulta totalmente illogica, e non fornisce una spiegazione nemmeno per dei tratti di cespugli e delle foglioline che sono state trovate sull'auto 132, lasciata in via Licinio Calvo, che portò Moro dopo il rapimento a via Fani. La presenza di foglioline, infiorescenze e altri residui di piante fa pensare che nel momento in cui Moro è stato portato via dall'auto, questa si trovasse in una zona ricca di cespugli, alberi o aiuole, ma Piazza Madonna del Cenacolo non ha nessuno di questi tre elementi. Analizzando la mappa e il percorso della "ricostruzione ufficiale" fino al momento in cui si interrompe, si può notare che la strada in cui questo percorso si "interrompe" (ossia Via Massimi), oltre ad essere vicina ad una filiale romana dell'università di arti liberali di Chicago, è vicina a degli efidici intestati allo IOR, la banca vaticana. L'invenzione a posteriori della destinazione in Piazza Madonna del Cenacolo è avvenuta probabilmente per nascondere delle altresì "imbarazzanti" complicità con alcuni vertici della curia vaticana (facilitate, possibilmente, dal coinvolgimento nell'operazione di tale Alessio Casimirri, figlio di un diplomatico per il Vaticano, di cui si parlerà più approfonditamente nei successivi paragrafi), che, come è già stato menzionato in precedenti paragrafi di questa voce, avevano anch'essi delle inimicizie con il "laico" on. Moro. Questa ipotesi sembra essere validata ancor di più dal fatto che le autorità del commissariato di polizia di Monte Mario, il più geograficamente vicino al luogo del rapimento, convinte della possibilità che i brigatisti e il loro ostaggio si fossero nascosti in uno degli edifici di Via Massimi, avviarono una perquisizione degli stabili nella strada, tutti, ad eccezione degli stabili di proprietà dello IOR, protetti dall'immunità diplomatica e dall'extraterritorialità statale[2]. Un'ulteriore validazione di questa ipotesi, e conseguente invalidazione della "ricostruzione ufficiale" fin troppo comoda per tutti, brigatisti e non, è data dal fatto che il percorso descritto dall'ex brigatista Morucci risulta troppo complicato, lungo e complesso, per avere come destinazione una piazza come quella di Madonna del Cenacolo, facilmente raggiungibile percorrendo altre strade principali, piuttosto che una strada secondaria. Un'ulteriore contraddizione che smentisce tale "ricostruzione" è data dall'affermazione di Morucci secondo cui da Piazza Madonna del Cenacolo il furgone con la "cassa di legno" che avrebbe al suo interno, presumibilmente, l'on. Moro, sarebbe stato poi spostato presso il parcheggio di un grande magazzino in Viale Newton, in cui il capo brigatista Moretti sarebbe rimasto solo con Moro, ma la sola possibilità che Moretti sia rimasto da solo con un'ingombrante cassa di legno contenente al suo interno Aldo Moro, anche solo per pochi minuti, non solo è improbabile, ma inverosimile. Secondo la "ricostruzione" di Morucci, dal parcheggio di questo grande magazzino, poi, l'ostaggio Moro sarebbe stato trasportato in una base-prigione del gruppo terrorista in via Montalcini 8, ma questa versione, che lui ha riferito per "sentito dire", è smentita sia dai presunti carcerieri della base di via Montalcini 8, Laura Braghetti e Germano Maccari, che racconteranno versioni diverse persino in merito al trasporto del prigioniero, contraddittorie tra di loro e con la versione data dall'ex capo brigatista[7]. Secondo la versione di Laura Braghetti: «La notte tra il 15 e il 16 marzo 1978 in via Montalcini dormimmo in tre, e cioè io, un militante regolare [Prospero Gallinari, ndr], e Altobelli [Germano Maccari, ndr]. Il militante regolare uscì di casa il 16 marzo presto e comunque in orario utile affinché potesse raggiungere via Fani [per partecipare alla strage, ndr], non so con quale mezzo. L’Altobelli invece rimase a casa per un certo periodo e se ben ricordo intorno alle ore 9 uscì con la Ami 8 e rientrò a via Montalcini dopo circa un’ora[8]»

Germano Maccari contraddice sia questa "ricostruzione" che quella di Moretti:

«Ricordo che Gallinari si alzò prestissimo la mattina del 16 marzo e ci disse che non ci saremmo dovuti muovere dall’appartamento [di via Montalcini, ndr], per nessuna ragione, neanche per andare a prendere un giornale; saremmo dovuti rimanere a casa ad aspettare il suo ritorno... Noi aspettammo il ritorno di Gallinari, cosa che avvenne, poco dopo le 9 della mattina del 16 marzo, cioè Gallinari entrò dentro l ’appartamento e ci disse, pregò a me e alla Braghetti di scendere nel box per aiutare Moretti a trasportare la cassa con il sequestrato dentro, e io e la Braghetti scendemmo e Gallinari rimase dentro l’appartamento, scendemmo, arrivammo nel box, c’era la macchina con questa cassa, io e Moretti l’abbiamo sollevata, tirata fuori dall’auto e trasportata fin dentro l’appartamento[9]»

Il fatto che, da parte dei brigatisti, direttamente coinvolti nel rapimento, non sia mai stata rilasciata una versione univoca e coerente, dimostra, oltre all'inattendibilità di qualsivoglia "ricostruzione ufficiale" comodamente accettata dai media mainstream liberal-capitalisti, a cui conviene asserire la "genuinità" di un fantomatico terrorismo "rosso" per la loro propaganda, che Moro in realtà non fu veramente tenuto come "prigioniero" in un'unica località, e che la fantomatica "prigione" di Via Montalcini 8 non è stata il primo luogo in cui l'on. Moro è stato rinchiuso, titolo che spetta, molto probabilmente, al "garage mimetico", menzionato nelle note di questa voce, come in quelle della pagina 208 del libro di Flamigni, presente nell'area degli edifici sotto il controllo della banca vaticana dello IOR, il cui accesso è probabilmente avvenuto grazie alla mediazione di uno dei "franchi tiratori", tale Alessio Casimirri, figlio di un diplomatico della curia vaticana, sulla cui figura, insieme a quella di altri "coinvolti" nel rapimento che sono oggi a piede libero in Italia o all'estero, si approfondisce meglio nei successivi paragrafi. Un'ulteriore dimostrazione della natura "eterodiretta" dell'operazione e del gruppo terrorista è data dal fatto che, delle cinque borse che portava con sé Aldo Moro, i terroristi ne trafugarono soltanto due: quella dei medicinali e quella dei documenti riservati; Moretti farà in seguito pervenire agli altri suoi "colleghi" terroristi la nozione (errata) che le borse siano andate poi distrutte, o comunque perse, quando in realtà furono custodite e nascoste per ovvi ordini superiori[10]. Il rapimento, uno degli eventi indubbiamente più traumatici della storia dell'Italia primorepubblicana, pare inizialmente rafforzare la "solidarietà nazionale": in parlamento la fiducia al governo Andreotti IV, costituito dalla coalizione DC, PSI, PSDI, PRI, con l'appoggio esterno del PCI, è varato, con la sola opposizione dei neofascisti dell'MSI, dei radicali (partito liberal-sionista costituitosi negli anni 70 in Italia) di Pannella, dei liberali del PLI e dell'unico partito dell'ultrasinistra che sia mai entrato in parlamento, il tanto eterogeneo quanto contraddittorio Democrazia Proletaria (costituito di fuoriusciti "di sinistra" del PCI, trotzkisti e "operaisti", antesignano del partito Rifondazione Comunista per molti aspetti), e i principali sindacati italiani, ossia la CGIL, la CISL e l'UIL proclamano uno sciopero generale per solidarietà alla situazione in cui tutto il paese si trova coinvolto. I mandati di cattura di Moretti, convenientemente ignorati fino a quel momento, vengono diramati a tutte le autorità della penisola, e Moretti si riscopre ricercato sin dal 1972. Intanto, tramite telefonate anonime ai giornali o ai collaboratori di Moro, i terroristi iniziano a comunicare le proprie intenzioni. Nel tanto fantasioso quanto irreale, nei proclami, primo comunicato, i terroristi definiscono Moro (e non altri individui indubbiamente più "dentro" gli ingranaggi del "sistema", come il quasi-clerico-fascista Fanfani o il pragmatico capo della destra anticomunista Andreotti) come il "principale teorico" della DC e il "principale nemico" da "processare" nel loro "Tribunale del Popolo". Il contenuto del primo comunicato fa presagire che questo sia stato in realtà redatto qualche tempo prima delle operazioni del rapimento, in quanto menziona una "maggioranza a sei partiti", ma il governo Andreotti IV ha ricevuto la fiducia di cinque partiti (il PLI si è tirato indietro all'ultimo momento), ennesima conferma che l'operazione era stata meticolosamente pianificata dall'alto da diverso tempo, e che i terroristi "rossi" sono stati da subito pedine occulte di altri mandanti. Il contenuto di questo e altri comunicati, che i terroristi affermano di avere readatto collegialmente e di comune accordo, in realtà è stato, come si evince da un'attenta analisi, divulgato da altri al Moretti stesso, e questi si è semplicemente limitato a farli rendere pubblici volta per volta. A dimostrazione della totale utilità dei terroristi "rossi" alla causa del capitalismo e della repressione poliziesca, Roma viene posta in stato d'assedio, e in tutta Italia la polizia è in massima allerta, con posti di blocco ovunque. Vengono perquisiti tutti gli appartamenti di Via Gradoli 96, a eccezion fatta ("curiosamente") per l'appartamento di Moretti (registrato con lo pseudonimo di "Borghi")[11].

Legami con bande terroristiche di altri paesi

Si è già fatta menzione in questa enciclopedia dei legami e del coinvolgimento di un altro gruppo eversivo neofascista mascherato di "rosso", ossia la banda della Germania Occidentale, la RAF (Rote Arme Fraktion, Frazione dell'Armata Rossa, in realtà totalmente estranea all'Armata Rossa originaria, ossia l'esercito sovietico). In merito al delitto Moro, però, Flamigni riporta:

«Il 21 marzo il giovane Roberto Lauricella segnala alla Questura di Viterbo di avere notato alla periferia della città un autofurgone con targa tedesca PAN-Y-521 e due persone a bordo, seguito da una berlina Mercedes anch’essa con targa tedesca e altri cinque passeggeri, e di avere visto all’interno dell’autofurgone "dei mitra". Dopo avere interessato la polizia tedesca tramite l’Interpol, la Digos di Roma il 31 marzo è in grado di comunicare all’autorità giudiziaria che la targa segnalata è relativa a un’auto intestata al sospetto terrorista Norman Ehehalt, il quale è in stretti rapporti col terrorista tedesco Willy Peter Stoll. Il successivo 18 maggio, durante una perquisizione nella tipografia del sospetto terrorista Ehehalt, la polizia tedesca trova le due targhe PAN-Y-521 (anteriore e posteriore) bruciacchiate, ma Ehehalt si rifiuta di rispondere alle domande degli inquirenti. L’Interpol ha accertato che un automezzo intestato a Ehehalt è stato utilizzato a Stoccarda dai terroristi tedeschi Cristian Wackragel e Peter Stoll. Quest’ultimo ha avuto un ruolo centrale nella strage di Colonia e nel sequestro Schleyer, attuati con la stessa tecnica della strage di via Fani e del rapimento di Moro. Anni dopo, il brigatista pentito Patrizio Peci dirà che il terrorista tedesco Willy Peter Stoll era in contatto con Moretti durante il sequestro di Moro. [...] Purtroppo la circostanza non potrà essere accertata: il terrorista tedesco Stoll verrà ucciso il 6 settembre 1978 in un ristorante di Dusseldorf, e addosso gli verranno trovati documenti comprovanti i suoi rapporti con le Br italiane[12]. Moretti negherà che le Br abbiano avuto, durante il sequestro Moro, rapporti con la Raf, sostenendo di averli stabiliti solo successivamente (estate 1978), e solo per scambi di documenti falsi. Ma il capo brigatista verrà smentito anche da Lauro Azzolini, il quale confermerà di avere tenuto, su incarico del Comitato esecutivo, i rapporti con i rappresentanti della Raf durante i 55 giorni del sequestro Moro, attraverso periodici incontri con i terroristi tedeschi: "Venivano in Italia ogni quindici giorni", dirà Azzolini, precisando di averli ripetutamente ammoniti a non prendere iniziative arbitrarie sul tipo di quella che la Raf aveva assunto pochi mesi prima, durante il sequestro Schleyer (il dirottamento dell’aereo della Lufthansa a Mogadiscio)[13]. Il capo brigatista negherà sempre - mentendo - l’evidenza dei rapporti Br-Raf durante il sequestro Moro, allo scopo di smentire gli indizi sulla presenza di un killer tedesco nel commando di via Fani. Ma non c’è dubbio che l’agguato del 16 marzo richiama il modello operativo e la tecnica militare impiegati dalla Raf per il rapimento Schleyer; e del resto Willy Peter Stoll, in contatto con Moretti, è stato uno dei sequestratori di Schleyer, come lo sono stati Rolf Heissler e Elisabeth Von Dick. La Raf intratteneva rapporti con una fazione estremista dell’Olp e con l’Eta, e le Br potevano comunicare con quelle organizzazioni tramite appunto la Raf, la quale era infiltrata ad alto livello dal Mossad, il servizio segreto israeliano[14][15]

Le sospette dichiarazioni di "autonomia" da parte dei terroristi e struttura concreta dell'organizzazione durante il rapimento

Il 25 Marzo 1978, 11 giorni dopo la strage di via Fani e la cattura di Aldo Moro, i terroristi si affannano per far pubblicare un secondo comunicato in cui ribadiscono la loro assoluta "autonomia" (excusatio non petita...) e la "prigione" del gruppo terrorista di Via Montalcini 8, "l'unica" secondo la "ricostruzione ufficiale" accettata da terroristi e non (per motivi che vengono approfonditi nei successivi paragrafi), in cui Moro viene detenuto per "tutti" i 55 giorni della sua cattura e fino alla sua "esecuzione" (cioè assassinio) è abitata, oltre che dai già citati brigatisti Laura Braghetti (proprietaria dell'immobile) e Germano Maccari (con lo pseudonimo di "Altobelli", spacciandosi come marito della Braghetti), anche da Prospero Gallinari, incaricato come "unico" carceriere di fare da guardia ad Aldo Moro. L'unico degli uomini direttamente coinvolti nella vicenda del rapimento vero e proprio a potersi muovere liberamente, senza problemi, nonostante sia ricercato come latitante e le sue fotografie siano diffuse in tutta Italia, è Moretti, che è libero non solo di andare avanti e indietro da Via Montalcini a Via Gradoli e viceversa, o di incontrare i "postini" Valerio Morucci e Adriana Faranda, che diramano i "comunicati" ma anche di fare la spola in altre città d'Italia, come Firenze, o altre regioni d'Italia, come la Liguria, dove si riunirebbe per "deliberare" con altri "brigatisti". Questa ricostruzione è in realtà abbastanza inverosimile, e l'unica cosa davvero certa è che è il solo Moretti a comunicare con Moro, a interrogarlo, a decidere quali domande fargli (domande scritte da chi?) e in ultima istanza cosa gli è permesso o meno fare durante la sua prigonia[16]. Nessuna delle domande fatte a Moro da Moretti sarà veramente pubblicata, per ovvi motivi, in particolare le dichiarazioni e rivelazioni di Moro sull'organizzazione Gladio e sui progetti golpisti tentati nei precedenti decenni della prima repubblica italiana. Le "domande" vengono poste solo in virtù dell'operazione di guerra psicologica dettata a minare la politica di "solidarietà nazionale" e in ultima istanza indebolire non solo il PCI di Berlinguer, ma anche quelle ale della DC politicamente più progressiste e vicine alle posizioni di Moro, favorevoli quindi ad una "apertura a sinistra". Le dichiarazioni propagandistiche e demagogiche delle "rivelazioni" non seguiranno mai a delle rivelazioni vere e proprie, e i nastri degli "interrogatori" di Moro da parte di Moretti verranno fuori solo 12 anni dopo, nel 1990, con la scoperta di un covo del capo brigatista, ma questo viene approfondito in seguito. Il "governo di solidarietà nazionale" con appoggio esterno del PCI è unito sulla "linea della fermezza", ossia di non discutere e di non trattare con i terroristi, una linea in apparenza forte, ma in realtà debole per via delle contraddizioni intrinseche non solo al PCI, ma anche alla DC e agli altri partiti di governo. Il 2 Aprile termina il 41° congresso del PSI, inevitabilmente influenzato dalla crisi del rapimento di Moro, e il segretario Craxi (eletto grazie alle manovre piduiste all'interno del PSI, come già precisato e come necessario ribadire), capo della corrente anticomunista degli "autonomisti", si attesta anch'egli sulla "linea della fermezza", ma lasciando delle aperture ad una possibile trattativa: è un preludio alla "linea umanitaria" del PSI che, lungi dall'avere come intenzioni quelle di salvare la vita di Moro, è servita solo da cataclisma interno al governo Andreotti IV per minare definitivamente la solidità della "solidarietà nazionale"[17]. Nel mentre la situazione è movimentata, per via dell'andirivieni sia di ufficiali di intelligence dagli USA, "ufficialmente" per aiutare le indagini, ma di fatto per rallentarle il più possibile, sia dei processi al nucleo "storico" dell'organizzazione terroristica, a Torino. Franceschini e Curcio, per quanto estranei al rapimento di Moro e contrari alla tattica dell'"assassinio" politico, non possono certo definirsi dei soggetti totalmente innocenti e privi di responsabilità, essendo il primo responsabile della "prova generale" del sequestro di Moro, ossia il già citato sequestro Sossi, e il secondo sin dagli inizi un comprovato infiltrato neofascista. Durante il processo i due ex-capi terroristi, imputati, discutono animatamente e polemizzano con Sogno, "parte lesa" in quanto coinvolto nel sequestro di documenti della sede di Milano della sua organizzazione, una situazione, quella della vecchia prassi degli "opposti estremismi", che evidentemente ai mandanti e veri capi occulti del terrorismo non interessa più, visto l'atteggiamento totalmente indifferente della nuova leadership delle Brigate Rosse[18]. Il 18 Aprile 1978 l'appartamento di Via Gradoli 96 viene abbandonato da Moretti e dalla Balzerani, un'inquilina dell'appartamento di sotto chiama i pompieri a causa di una "perdita d'acqua" dovuta alla "cornetta" della doccia della vasca da bagno dell'appartamento lasciata a scorrere vicino al muro, e nel mentre viene rilasciato un nuovo comunicato, palesemente falso, da parte delle Brigate Rosse (il "comunicato n.7"), poi scopertosi scritto da un individuo legato ad organizzazioni criminali di tipo mafioso, che viene però avallato come vero dalle autorità italiane, che dichiara che Moro sarebbe stato ucciso e il cadavere sarebbe stato lasciato nei pressi del Lago della Duchessa. Trattasi di due messe in scena che hanno il solo scopo di distrarre la pubblica opinione, i media e le autorità dalle vere azioni dei commando terroristi e dei poteri occulti che li sovvenzionano; nello specifico ha lo scopo di permettere a Moretti di abbandonare la "base" di via Gradoli, ormai compromessa e a rischio, e poter proseguire in tutta sicurezza le operazioni terroristiche e criminali del suo gruppo. Vengono ritrovate bombe a mano, pistole, mitra e altri tipi di arma da fuoco: una scena da fumetto d'azione o da fotoromanzo, che altro non ha che lo scopo di distogliere le autorità e l'opinione pubblica; nel mentre le autorità vengono mobilitate per muoversi presso il lago ghiacciato della Duchessa, garantendo ai terroristi un'ulteriore finestra di tempo per muoversi ed agire. Un'analisi ponderata della situazione, dei verbali dell'"irruzione" e della "scoperta" della base di Via Gradoli altro non fa che dimostrare che la messinscena era avvenuta a questo scopo: non vi sono segni di effrazione, chi è entrato nell'appartamento aveva le chiavi. L'intera area di Via Gradoli e del palazzo degli appartamenti al numero civico 96 era controllata da membri, diretti o meno, dei servizi segreti italiani, eppure Moretti ha potuto facilmente stabilirsi lì nel 1975, tre anni prima del sequestro di Moro[19]. Il falso comunicato (scritto da personalità legate ad ambienti camorristici, e il legame tra crimine organizzato e i terroristi delle "Brigate Rosse" è meglio approfondito nei successivi paragrafi) può essere anche interpretato come una specie di "monito" ai terroristi da parte dei loro mandanti ad "accelerare" la procedura; lo scopo del rapimento, ma non dell'uccisione immediata, dell'on. Moro è stato, come già precisato, quello di distruggere la cosiddetta "unità nazionale" e favorire un facile pretesto per la destra della DC, non ancora pronta a governare con il PCI, per poter abbandonare le proposte dell'ala morotea del partito. Una eventuale uccisione "prematura" di Moro avrebbe invece rafforzato, seppur per breve tempo, la "solidarietà nazionale" grazie allo sdegno che se sarebbe venuto a crearsi. I terroristi rilasciano un comunicato di "ultimatum", richiedendo, similmente alla vicenda del sequestro Sossi, la "liberazione dei prigionieri politici" affiliati ad altre bande terroristiche: una richiesta naturalmente inaccettabile, ma che porta il PSI a guida craxiana a spostarsi dalla "linea della fermezza" ad una linea di "trattative umanitarie", il primo passo verso la distruzione totale del nuovo governo, il primo dal 1947 appoggiato dal PCI. A dispetto di quanto comunicato in precedenza, i terroristi in un nuovo comunicato continuano a contraddirsi, continuano a definire Moro loro prigioniero, continuano a parlare di liberarlo a patto delle medesime condizioni date in precedenza, e rilasciano un'altra frase che "precisa" la loro natura "autonoma" e "cristallina", "senza niente da nascondere" (encore une foix: excusatio non petita); nel comunicato viene pubblicata in allegato una lettera di Moro in cui dichiara che ai suoi funerali non vuole la partecipazione né di autorità statali, né del suo partito, da cui si è chiaramente sentito tradito, per ovvi motivi, comprendendo quindi egli stesso di essere una pedina, una vittima, e comprendendo la vera natura dei terroristi, esecutori di ordini da parte di uomini più "in alto"[20]. Lo stesso Henry Kissinger, secretario di Stato USA e numero 2 di Nixon e di altri presidenti americani mostruosamente reazionari e criminali, minacciò di morte l'onorevole e presidente della Democrazia Cristiana per la sua politica di "apertura" al PCI (per quanto la propaganda liberal-capitalista tenti impunemente di negare l'innegabile). Un'ulteriore conferma sia della natura di meri "esecutori" di un ordine dall'alto, sia dello scopo principale delle loro azioni di isolare il PCI dal resto dei partiti governativi, è data dall'ultima telefonata fatta dallo stesso Moretti alla figlia di Moro: nella telefonata descrive le azioni svolte fino a quel momento dal governo e dalle autorità come "inutili", chiede alla DC di "intervenire nelle trattative", e parla della necessità di eseguire quanto "hanno detto" (cioè quanto gli è stato ordinato di fare dall'alto, come è stato dimostrato più volte, cioè dalle destre americana e italiana, dalla P2 e dai servizi segreti atlantisti, altrimenti non si speigherebbe perché questa "costrizione" ad assassinare un prigioniero di così alto valore come Moro). Moretti è stato fino all'ultimo, almeno dal punto di vista del sequestro e del delitto in sé, l'unico ad avere davvero il polso della situazione. In seguito, la disinformazione da parte dei servizi di Gladio a cui lo stesso Moretti, in quanto loro diretto dipendente, contribuirà anni dopo gli avvenimenti, definirà la "censura" delle lettere e delle rivelazioni di Moro come un qualcosa avvenuto "per errore", e lo stesso Moretti dichiarerà di non aver davvero "compreso" l'"importanza" di queste. Palesi e comode menzogne a cui neanche un bambino crederebbe. Come viene poi ipotizzato dalla Commissione Parlamentare Stragi nel 2000, nello specifico dal presidente della commissione, il senatore Giovanni Pellegrino, pare che in realtà tale "censura", inevitabile vista la già dimostrata natura delle "Brigate Rosse" e dei terroristi "rossi" come esecutori e banditi al servizio del capitalismo, sia avvenuta nello specifico come parte di una trattativa tra i terroristi e i servizi segreti italiani e statunitensi. Moro ha rivelato innumerevoli dettagli sulla strategia della tensione e sull'organizzazione Gladio, dettagli che un gruppo armato sedicente "antisistema" non avrebbe problemi a far uscire fuori per screditare il sistema che starebbe "combattendo", cosa che non è avvenuta perché le "Brigate Rosse" e i loro capi, vecchi e nuovi, non hanno mai combattuto il sistema, e il fatto che ad oggi vivano liberi (proprio come i loro "avversari" neofascisti), alcuni di loro addirittura stipendiati dallo stato italiano (come viene approfondito nei successivi paragrafi) è la dimostrazione più evidente. A seguito di queste probabili quanto sicure trattative tra i "brigatisti" e i servizi atlantisti, che portano alla "censura" delle rivelazioni di Moro in merito a Gladio e ai crimini atlantisti in Italia (tra cui il finanziamento e la creazione di gruppi terroristi di destra e di "sinistra") compiuti per poter mantenere il dominio dei reazionari saldo e intatto, e a seguito di mandati di cattura dove ritorna la provvidenziale "fortuna" di Moretti, unico il cui nome non appare durante e dopo il sequestro di Moro, un'omissione così assurda da legittimare ogni tipo di sospetto, stando a quanto affermato dallo stesso Flamigni. Le "vecchie" BR non sono coinvolte nel sequestro di Moro, e le demagogiche richieste di "scambio di prigionieri" da parte dei terroristi sembrano fatte di proposito per acquietare, per il momento, le "divisioni" interne ai terroristi, come scrisse in quei giorni Mino Pecorelli, il giornalista d'inchiesta, che forse proprio per questa sua "chiaroveggenza" (avrebbe "previsto" anche una "grande amnistia" per tutti, terroristi neri e "rossi", cosa che avvenne poi circa 15-20 anni dopo i fatti) fu misteriosamente "rapito" anch'egli e poi scomparso. Ulteriore riprova del disinteresse dei terroristi per qualunque trattativa, oltre che dell'unico vero scopo di compromettere e favorire l'isolamento del PCI, unico partito che era rimasto contrario a qualsiasi trattativa per la liberazione di Moro, è data dall'assassinio di Moro stesso: i terroristi comunicano la loro decisione unilaterale di assassinare il loro "ostaggio" proprio quando sia il PSI che la DC sembrano d'accordo a intavolare qualche tipo di trattativa. In pratica, è una vittoria per tutti: il PCI è isolato, la "solidarietà nazionale" di fatto è compromessa in modo irreversibile, e sia la DC che il PSI, ormai entrambi a guida delle rispettive correnti anticomuniste e influenzate dalla P2 di Gelli, possono avere una giustificazione propagandistica per poter apparire all'opinione pubblica come coloro che più di tutti erano interessati alla sicurezza e alla salvezza di Moro (cosa che lo svolgimento stesso dei fatti dimostra non essere vera)[21].

Assassinio di Moro

Secondo la "versione ufficiale" Moro sarebbe stato ucciso nella "prigione" di Via Montalcini 8, e poi il cadavere sarebbe stato portato in una Renault 4 rossa in via Caetani, una stradina di Roma a metà strada tra Via delle Botteghe Oscure, sede del PCI, e Piazza del Gesù, sede della DC. La Braghetti, Maccari e la "ricostruzione ufficiale" si contraddicono in continuazione anche in questo caso, e la versione più probabile degli eventi è stata descritta nell'ultima lettera di Moro alla moglie, in cui dichiara di aver saputo sin dall'alba del giorno 9 Maggio 1978 che il suo destino era ormai segnato. Un'altra questione su cui va fatta chiarezza è la "mano" dell'esecutore materiale di Moro, per anni i brigatisti stessi vorranno far credere che sia stato Prospero Gallinari, ma in realtà fu Moretti stesso, e quest'ultima menzogna servirà solo a fornire un'ulteriore e utile "copertura" al super-latitante. Il luogo dell'uccisione vera e propria è anch'esso poco chiaro: inspiegabilmente, i brigatisti affermarono di aver assassinato Moro nelle scale del garage dello stabile, e non nella stanza insonorizzata. Il cadavere di Moro fu ritrovato avvolto in determinati punti da diversi fazzoletti, chiaramente allo scopo di tamponare il sangue ed evitare fuoriuscite compromettenti, anche se in merito ai fazzoletti non sarà mai chiarito chi li abbia messi o perché. Un'inquilina di Via Montalcini 8, tale Graziana Ciccotti, pare invece smentire l'idea di Moro trasportato vivo e "ucciso" in un'area diversa dalla cella insonorizzata in cui era "detenuto", dichiarando nel 1988, 10 anni dopo gli avvenimenti, di aver intravisto, tre settimane prima dell'assassinio e del ritrovamento di Moro, uscire dal garage del palazzo un'automobile rossa, diversa dall'altra automobile che aveva visto entrare e uscire in precedenza, una Ami 8 color crema, e di aver associato tale automobile alla Renault 4 rossa in cui fu poi ritrovato il cadavere di Moro. La Braghetti confermerà tale episodio ma lo daterà al giorno dell'esecuzione. Escludendo questi dettagli, è chiaro ed evidente che Moro fu ucciso in realtà all'interno della cella insonorizzata, e il suo cadavere fu poi trasportato nella Renault 4 rossa, anche se vi sono degli elementi concreti che fanno pensare che Moro passò le sue ultime ore in un'altra "base" brigatista, nella zona del Ghetto ebraico, a ridosso di Via Caetani. Un'ulteriore dimostrazione dei collegamenti "sospetti" tra gli esecutori del delitto e individui collegati, indirettamente o meno, ai servizi segreti e ad altri "poteri occulti" è il ritrovamento nella "base" di Via Gradoli 96 di un foglietto manoscritto da Moretti, sul retro della copertina di un libro di fantascienza, una delle "letture preferite" del capo terrorista, in cui si indicano un medicinale specifico, necessario per l'on. Moro, individuo dalla salute cagionevole, e il numero e nome di "Marchesi Liva". Il recapito telefonico è stato ritrovato in altri documenti, e pare ricondurre all'immobiliare Savellia, che ha sede nel palazzo Orsini, dove pare abitasse anche la marchesa Valeria Rossi in Litta Modigliani, che usava firmarsi anche come Valeria Liva. Indagando ulteriormente, tale marchesa Liva col suo immobiliare Savellia, che ha un prestanome, un pensionato di nome Tolmino Cavalli, come "amministratore ufficiale", sia collegata all'amministratore di fatto della stessa agenzia immobiliare, tale Giovanni Colmo, economista e poi segretario della società immobiliare Palestrina III, società di copertura del SISDE. Il fatto che le indagini su tali documenti siano avvenute molti anni dopo lo svolgimento dei fatti e siano state superficiali porta a rendere ragionevoli i sospetti, mutati in certezze dopo le ulteriori ricerche di Flamigni, di ulteriori collegamenti tra servizi segreti e il rapimento di Moro. Ulteriori prove validano la tesi di Moro tenuto prigioniero nei suoi ultimi istanti di vita nei pressi del Ghetto ebraico, vicino Via Caetani: il ritrovamento di un covo di "fiancheggiatori" dei terroristi, i due militanti dell'ultrasinistra extraparlamentare Raffaele De Cosa e Laura Di Nola, scoperta avvenuta tramite le rivelazioni di tale Elfino Mortati, latitante dal Marzo al Giugno 1978 per l'omicidio di un notaio, tale Spighi Di Prato, che rivelò agli inquirenti di avere abitato in Via dei Bresciani durante il sequestro di Moro, e in tale abitazione avrebbe discusso con altri i dettagli dei comunicati e degli avvenimenti del rapimento e poi omicidio di Aldo Moro. Emergerà inoltre che tale Laura Di Nola, poi deceduta nel Luglio 1979, era direttamente legata al Mossad, ed era figlia di un ebreo commerciante di tessuti la cui attività era situata in Piazza Paganica. Un'altra connessione "sospetta" è data dall'analisi delle indagini di agenti del SISMI a Palazzo Caetani, vicino al luogo dove poi sarà lasciato il cadavere di Moro, in cui fu indagato un individuo sospettato di far parte del gruppo terroristico, ma poi rivelatosi totalmente estraneo ad esso, tale Igor Markevitch, che per di più non abitava neanche a Palazzo Caetani, dove però invece aveva sede l'ambasciata dei Cavalieri di Malta, ordine religioso di cui molti esponenti erano iscritti in quel momento alla loggia massonica P2, tra cui il generale del SISMI Santovito e il deputato di destra della DC Luigi Rossi di Montelera. È assurda la ricostruzione ufficiale dell'uccisione di Moro in Via Montalcini 8 e il trasporto del cadavere in una località così lontana come Via Caetani, nel centro di Roma, ed è invece più verosimile oltre che probabile che Moro sia stato ucciso in un'altra "prigione" brigatista nella zona del Ghetto ebraico e poi trasportato in Via Caetani nel bagagliaio della Renault 4. Ancora più sospetto è il fatto che in prossimità di via Caetani vi siano diversi edifici "ambigui" che avrebbero potuto servire da copertura per i terroristi, come il Palazzo Mattei, dotato di ampi sotterranei, con vari magazzini, soprattutto nell'ambito del commercio di tessuti (materia del padre della comprovata agente del Mossad Laura Di Nola), sede di vari enti culturali, di un edificio dei servizi segreti con linee telefoniche pagate dall'ambasciata americana, e che l'edificio stesso in linea d'aria non sia poi così distante da un istituto di lingue statunitense, a sua volta collegato ad un istituto di lingue francese a sua volta collegato all'ufficio della "scuola di lingue" e centrale d'intelligence Hyperion di Simioni, per di più situata nel medesimo edificio in cui hanno sede altre società di copertura del SISMI. Altri possibili edifici in cui Moro potrebbe essere stato condotto sono i diversi magazzini tessili presenti in piazza Paganica, la stessa piazza in cui aveva sede l'attività del padre dell'agente del Mossad e "militante di sinistra" vicina ai radicali di Pannella, Laura Di Nola, come dimostra il ritrovamento di "tessuti filamentosi" sulle suole delle scarpe dell'onorevole. Le diverse perizie effettuate sul corpo di Moro smentiscono qualsiasi ricostruzione "ufficiale" di Moretti o Morucci comodamente accettata dai servizi, dai media mainstream liberal-capitalisti e in primo luogo dall'ex capo di Gladio, in quel momento ministro dell'interno e poi presidente della repubblica, Cossiga. Se la "ricostruzione ufficiale" descrive le condizioni di prigonia di Moro come spartane, ritrovandosi egli in una cella con scarsi servizi igienici e in cui si sarebbe dovuto rannicchiare per scrivere le lettere, le perizie sul corpo di Moro ritrovano uno stato igienico e di salute eccellente, senza particolari sforzi fisici per "piegarsi" nello scrivere le sue lettere. Inoltre, nei suoi indumenti, come nelle tasche dei pantaloni, sono stati trovati materiali terrosi, vegetali e sabbiosi, e ricerche avvenute poco tempo dopo l'assassinio dimostrano che vi fu una base brigatista nei pressi di Fregene, località di mare a pochi chilometri da Roma. Nella zona, i giorni 7-8 Maggio, un testimone, tale Sergio Cardinaletti, ha dichiarato di aver individuato una vistosa Renault rossa, e furono trovati dei volantini e delle fotografie di capi brigatisti sepolti sulla spiaggia, tra cui una fotografia di Moretti. Le perizie smentiscono anche le modalità "tecniche" dell'uccisione di Moro, la ballistica ha stabilito che Moro ha subito una raffica di colpi dalla mitraglietta Skorpion, seguiti poi dai colpi della rivoltella Ppk. La mitraglietta avrebbe trafitto coi suoi colpi Moro, e la calibro 9 avrebbe poi terminato il lavoro con un colpo di grazia, andando quindi a smentire definitivamente le ipotesi di Maccari di un "inceppamento" delle armi durante l'esecuzione. Lo stesso Maccari insieme alla sua "collega" Braghetti ha asserito che l'assassinio sarebbe avvenuto intorno alle 6-7 di mattina, presto, mentre la perizia ha stabilito che in realtà l'assassinio avvenne tra le ore 9 e le ore 10 di mattina, molto più tardi. Maccari ha poi affermato che l'esecuzione sarebbe avvenuta in Via Montalcini e poi il cadavere, senza alcuna fermata intermedia, sarebbe stato portato in Via Caetani. La telefonata di Morucci smentisce questa "ricostruzione", in quanto, quando Morucci ha annunciato l'esecuzione di Moro e la località del cadavere, telefonando alle ore 12:13 del 9 Maggio 1978, affermava che il cadavere era stato lasciato lì da poco tempo, fatto che fu confermato dall'arrivo alle ore 12:20 di una volante della polizia che ha subito identificato la Renault 4 rossa. Inoltre la perizia ha decretato nelle sue indagini che i proiettili furono sparati dal vano interno della macchina, comunicante con il bagaglialio. Tutto questo conferma ulteriorment la possibilità che in realtà Moro fu tenuto prigioniero gli ultimi momenti della sua vita in una località del Ghetto ebraico di Roma, vicinissima a Via Caetani dove fu abbandonato il cadavere. L'abbandono di Moro in un viale a metà strada tra le sedi della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista Italiano dimostra il vero scopo della guerra psicologica, ossia la distruzione di qualsiasi ponte tra i due partiti e della "solidarietà nazionale", e nuove conferme della speciale protezione del capo dei terroristi, Moretti, è data dal fatto che pochi giorni dopo l'assassinio questi abbia avuto la possibilità di incontrarsi con il leader del movimento dell'ultrasinistra antisovietica anarco-trotskista Potere Operaio, tale Franco Piperno[22].

Bibliografia

Note

    1. Flamigni, La tela del ragno. Il delitto Moro, Kaos edizioni 2003, pagg. 39-65., citato in Flamigni, 2004, pag.204
    2. Ibidem, pp.206-207
    3. Ibidem, pag.202
    4. Ibidem, pp.201-202
    5. Ibidem, pag.203
    6. Ibidem, pag.205
    7. Ibidem, p.207-209
    8. Ibidem, p.209
    9. Ibidem, p.209-210
    10. Ibidem, p.211
    11. Ibidem, p.211-213 12. Della morte di Stoll, la stampa tedesca scriverà: «Nel ristorante erano entrati due della polizia antiterrorismo, e prima che Stoll potesse tirare fuori un’arma uno dei poliziotti l’aveva già freddato»; M. Scarano e M. De Luca, Il mandarino è marcio, Editori Riuniti 1985, pag. 74., citato in Ibidem, p.215
    13. Alcuni elementi confermano i rapporti Br-Raf durante il sequestro Moro. La terrorista tedesca Elisabeth Von Dick, uccisa a Norimberga il 4 maggio 1979, verrà trovata in possesso di una carta di identità italiana rubata all’anagrafe comunale di Sala Comacina (Como), un documento appartenente alla stessa serie di quelli trovati nel covo Br di via Gradoli. Un altro documento di identità della stessa partita verrà trovato nelle tasche del terrorista tedesco Rolf Heissler (anche lui tra gli esecutori del sequestro Schleyer), arrestato a Francoforte il 9 giugno 1979. La Von Dick era in possesso anche di una falsa patente italiana della stessa serie di quelle trovate nella base brigatista di via Gradoli, e con lo stesso timbro della Prefettura di Roma sequestrato nel covo delle Br.,citato in ibidem, p.215
    14. Aldo Musci e Marco Minicangeli, Breve storia del Mossad, Datanews 2001, pag. 55., citato in Ibidem, p.215
    15. Ibidem, p.214-215
    16. Ibidem, p.216-217
    17. Ibidem, p.218-219
    18. Ibidem, p.220-222
    19. Ibidem, p.222-227
    20. Ibidem, p.230-232
    21. Ibidem, p.232-236
    22. Ibidem, p.236-250